Nulla più si comprende: gli occhi sono irrequieti, le tempie pulsano, le gambe s’incrinano, mentre percorro la via, agognandola, ricordandola assieme ai miei piedi. Non so più dove guardare, cosa guardare, come guardare.
Tutto tace, sotto. Non esistono più tracce umane, nel cosmo. L’oblio arranca, mentre tutto muore.
Vivo senza consapevolezza di farlo. Ogni oggetto risveglia qualcosa dal mio passato; mi ricorda che un tempo dissi: “Io sono!”
Riposo eterno. Ma qualcosa pesa sulla mia penna: un fardello, dai denti a sciabola, che succhia via dalla pagina ogni segno d’inchiostro. Lungo la fine sorge l’inizio. Cosciente, vivo senza scelta. I luoghi mi parlano, ma li avverto solo come corpi senza vita. Solo vene e ossa.
Qualcosa cambia, tra le foglie. Ma solo se c’è vento.
Croci sulle spalle, brividi sui piedistalli. Quando la brezza mi sfiora, mi scopro privato d’ogni mia debolezza, latente succube dei miei piccoli demoni che s’infiltrano tra le membra.
Chiuso tra quattro mura di vetro. Vedo gli altri, gli altri vedono me. Rimane il fatto che possa solo vederli, non sentirli. La voce li caratterizza. Per il resto non sembrano esistere. Se ogni esistenza fosse legata a Dio, sarebbe un Dio assai chiacchierone.
A un passo da ogni presagio di morte, la mia vita cambia. Succede solo lì, mai in momenti diversi.
Rosse foglie. Arbusti roventi. Piedi morti. Tanti alberi, ma tutti sottili, che non coprono niente, non nascondono niente.
L’abbandono delle dimore. L’attesa di passi che mai risuoneranno.
Tra i rami del sonno, sono nostalgico. Ogni istante.
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