Nei mesi passati si è discusso sull’utilità del politically correct, ma ci rendiamo conto che non è corretto parlare senza sapere. Forse noi, persone bianche (specialmente se benestanti, eterosessuali e maschi), fatichiamo ad accettare il senso di tale innovazione ed è giusto che spesso ci si indigni nel sentire certe affermazioni; tuttavia è pure libertà affermare “non si può più dire nulla”, anche se è una piccola frase fatta.
L’espressione “political correctness” designa, in particolare, “una linea di opinione e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto formale, soprattutto nel rifuggire l’offesa verso determinate categorie di persone” (Wikipedia). Si tratta di una massificazione del linguaggio, scritto, parlato e artistico, per preservare dalla discriminazione i gruppi sociali che più ne sono soggetti.
Bene, è arrivato il momento di parlare di questioni scomode: il discorso dei comici Pio e Amedeo durante l’ultima puntata di “Felicissima Sera” del 30 aprile. I due si sono pronunciati sulla spinosa questione del politically correct, e in particolare sulla famigerata massima che infesta i nostri cuori in tempi recenti: “non si può dire più niente”. Tralasciando lo stile comico, sicuramente discutibile, è interessante capire cosa abbiano davvero detto, scoprendolo direttamente da loro. La tecnica comunicativa dello “sfinimento”, ribadire a ripetuti intervalli e senza fronzoli la tesi, sebbene risulti a tratti irritante e allergica alla credibilità, sembra funzionare: non conta la parola, ma l’intenzione. Questo era il messaggio, e questo arriva limpidamente a chi guarda. Ma hanno davvero ragione?
Forse sì. O meglio, avrebbero ragione se vivessimo in un mondo perfetto: un mondo in cui i valori sono stati pienamente assimilati e interiorizzati da ogni essere umano; in cui non esistono più parole discriminatorie, perché non esistono storie di discriminazioni alle spalle; in cui non si è costretti a pagare con la vita la propria “differenza”. Ma purtroppo non è così. È doloroso ammetterlo, ma l’Italia (nel caso specifico, ma vale per molti altri Stati) è un Paese fortemente ancorato alla paura del diverso, alla tradizione familiare, alla ricerca della “normalità” a scapito della “diversità”. E lo dimostrano, purtroppo, i dati e le statistiche. Sono valori profondamente radicati nel nostro pensiero, nel nostro sguardo, nelle nostre parole, soprattutto in quelle taciute.
La scoperta della propria “diversità” è un evento destabilizzante, specialmente per le fasce d’età più delicate e i gruppi sociali più ai margini. Occorre un complesso percorso di analisi e comprensione del proprio “io”, prima di giungere all’accettazione e alla normalizzazione. E spesso le parole, anche quelle più innocue e disinteressate, possono danneggiare in maniera irreparabile questo fragile percorso.
È anche vero, però, che un eccesso di politicamente corretto comporta una progressiva erosione della libertà di parola, di stampa e di espressione. Amedeo porta più volte l’esempio della parola “negro”, sostenendo che un utilizzo contestualizzato e ironico ne farebbe crollare la natura discriminatoria. In questi casi appellarsi alla nostra bellissima lingua è sempre la scelta più saggia. Illuminante risulta il contributo dell’Accademia della Crusca: “È evidente che la parola “negro” veicolava giudizi d’inferiorità. Ed evocava secoli di «razzismo», e di crimini commessi in suo nome.” Ciononostante, si afferma in seguito, “sarebbe bene non prescindere dai contesti, dalle intenzioni del parlante, o dai tratti sovrasegmentali (come l’intonazione). Ed evitare, in ogni caso, tentazioni censorie o posizioni isteriche”. Il contributo conclude sostenendo il carattere ambiguo e problematico del termine, ma ponendo l’accento su una questione extralinguistica: davvero è sempre così importante specificare il colore della pelle?
Non è possibile prescindere dal linguaggio. Nell’incapacità di afferrare compiutamente i pensieri altrui, ciò che siamo è rappresentato da ciò che diciamo. La parola è importante, certo: ma lo è ancora di più l’educazione alla parola stessa. Se alcune espressioni sono sentite come discriminatorie a causa della loro brutale tradizione, non significa che quest’ultima non possa essere cancellata, col tempo.
Il mondo auspicato da Pio e Amedeo arriverà un giorno, favorito dal miracoloso ricambio generazionale: possiamo accorgercene guardandoci intorno; scrollando i commenti sotto un post di Instagram, sfogliando un giornale. Il cambiamento è alle porte. Ma, come afferma saggiamente Franz Kafka, “credere al progresso non significa credere che un progresso sia già avvenuto”. Abbiamo ancora la necessità di essere portati per mano verso il futuro.
Detto ciò, un altro punto fondamentale del monologo è l’ironia. Secondo i comici pugliesi, si deve poter scherzare su tutto, soprattutto sugli stereotipi. E, cosa ancor più importante, bisogna ridere in faccia ai carnefici, allo scopo di non dar loro soddisfazione. Premettiamo che l’ironia potrebbe effettivamente salvare il mondo: scherzando su determinate parole, è possibile svuotarle della loro intenzione offensiva, dimostrando che, in una società dove domina la perfetta uguaglianza, la discriminazione non può più attecchire. Del resto lo afferma anche Ricky Gervais, uno dei comici più scorretti e soverchiatori del nostro tempo: “Humor is to get us over terrible things”. Ma anche qui, tutto ciò avverrà in futuro. Non abbiamo ancora a disposizione gli strumenti necessari per garantire la parità, né tantomeno le vittime hanno la forza e le possibilità di prendere in giro i carnefici.
È difficile dare torto alle affermazioni di Pio e Amedeo. Sono cose che tutti noi vorremmo veder accadere. Ma, in attesa di un confine tra scherzo e offesa, tra ironia e discriminazione, non sono propositi attuabili. In questo, forse, sta il problema del monologo: nell’approccio approssimativo al problema, nella scarsa considerazione delle reali dinamiche del nostro tempo.
E nel presente, vediamo ancora lotte per i diritti, ragazzi uccisi per il colore della loro pelle e persone che arricciano il naso quando vedono due ragazze che si baciano. Come dicono le 50 ambasciatrici delle Nazioni Unite in un discorso trascritto da “La Repubblica”: “è necessario un cambio di mentalità” e forse è proprio il politicamente corretto il vero protagonista di questa nuova rivoluzione sociale.
Guardiamoci intorno: quante cose sbagliate stanno succedendo? Troppe, ma non è necessario elencarle, anche se sarebbe corretto, perché ognuno le ordina nella propria mente in modo diverso. Alcuni sostengono che il DDL Zan sia meno utile del rimuovere dall’incarico i preti pedofili; chi ritiene che la violenza sugli animali sia un problema che sovrasti la discriminazione tra i sessi, e così via.
Parlare di un avvenimento lontano come l’imbrattamento dei monumenti ci aiuterebbe a capire meglio. Perché mutilare quelle statue? Perché non le hanno semplicemente lasciate lì? E, invece, no. Le hanno riempite di colpi, tirate, buttate in acqua e rovinate, perché rappresentavano schiavisti, tiranni e assassini. Apprezziamo l’arte, ma dimentichiamo che nessuno di quelle persone vorrebbe vedere qualcuno che rappresenta per loro un ricordo di un’epoca vissuta da schiavi, prigionieri o morti. Per questo, il politicamente corretto è solo una rivoluzione, una di quelle pacifiche, ma radicali, che o viene presa in considerazione o creerà scompiglio.
Tuttavia, è da dire che questa rivoluzione a volte sbaglia colpo. Non c’entra il bersaglio, che, invece, dovrebbe essere l’unico punto su cui focalizzarsi. Il politicamente corretto viene spesso accusato di non impegnarsi realmente nel risolvere le tematiche a cui sarebbe corretto dare più attenzione. Forse non sempre queste accuse sono vere, però è vero che questa rivoluzione si concentra molto su cose di valore quasi minimo: uno degli esempi potrebbe essere il recentissimo scandalo nato sulla fiaba di Biancaneve.
A essere stato preso di mira, è stato il bacio non consensuale da parte del principe. Da una parte, è vero che la sensibilizzazione riguardo questi argomenti deve partire dalle età più flessibili; però rimane comunque una fiaba. Il sogno di ogni piccola principessa. Esser baciato da cotanto amante e risvegliarsi dal sonno, così in un dolce momento di amore.
Se siete riusciti a mandare giù la vostra indignazione e siete ancora qui, sarebbe interessante andare a capire come stanno realmente le cose. La notizia risale a un articolo del San Francisco Gate (un giornaletto locale, circoscritto alla baia di San Francisco e poche altre zone della California), firmato da Katie Dowd e Julie Tremaine, pubblicato il 2 maggio 2021 a seguito di una visita a Disneyland. E questo già basta per farsi un’idea della situazione.
La presunta “polemica” nasce, in realtà, da un’opinione espressa da due giornaliste in un giornale di modesta diffusione. Perché, allora, la notizia si è diffusa senza controllo, tanto che alcuni tra i quotidiani più importanti del mondo l’hanno riportata? Gli abusi sulle donne, la consensualità dei rapporti sono temi particolarmente allarmanti negli ultimi tempi, di conseguenza non dovrebbe stupire questo avvenimento. Inoltre, sembra che il pubblico vada pazzo per le riletture anacronistiche di fiabe, film e libri.
È evidente che l’intera operazione sia il frutto di un sistema d’informazione marcio, il cui punto focale non è più la notizia, bensì lo scandalo. Qualcuno fa un’affermazione, condivisibile o meno; le sue parole sono gettate, senza alcun riguardo dell’impatto che possano avere sul pubblico, nella rete d’informazioni e rimbalzano da un giornale all’altro, distorcendosi, acquisendo più peso di quanto non lo avessero.
Infine, la censura del politicamente corretto trova un suo ambito naturale nei prodotti dedicati ai bambini: ecco un elenco di episodi dell’anime Pokémon censurati in tutto il mondo: “Vacanze ad Acapulco” (un uomo con un reggiseno), “La leggenda di Dratini” (utilizzo di armi da fuoco), “Incontro con Babbo Natale” (discriminazioni razziali). E questi sono solo i più famosi. Clicca qui per indignarti.
Il mondo, inteso come totalità di animi, culture e pensieri, si è accorto della sua varietà. Il concetto di “libertà” non è mai stato così forte come nei primi decenni di questo grande secolo. Ma da “cerchiamo la libertà” a “imponiamo la libertà” il passo è breve: non si tratta più di una battaglia per i diritti, bensì una vera e propria arma contro chi non ci va a genio.
Chiariamo un punto fondamentale: non esiste battaglia sociale che sia concettualmente sbagliata. Le innumerevoli sfaccettature della specie umana, l’unica a possederne così tante, entrano spesso in conflitto. È inevitabile. Ciò che per molti è un valore, per altri risulta un’intollerabile eresia. Ma, se è vero che le dicotomie bene/male, morale/immorale, giusto/sbagliato sono relative ai punti di vista (non a caso “eresia” deriva dal greco αἵρεσις, scelta), qualsiasi atteggiamento che danneggia un determinato gruppo sociale, in qualsiasi forma, è da condannare. Soprattutto se ci si professa affini a quella parola tanto discussa e abusata: “uguaglianza”. Ma non esistono altre strade oltre la censura? Il modellamento del linguaggio?
Del resto, è molto più semplice minacciare di linciaggio chi usa una determinata parola, piuttosto che migliorare l’idea del singolo, convincerlo della bontà di certi provvedimenti, cambiare la mentalità, lo stile di vita.
In breve, per concludere questa lunga requisitoria: bene il politically correct. Ma, come tutte le cose della vita, è bene anche non abusarne.
Alessandro Sabatini e Aleksandra Babis
0 commenti