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La romanizzazione è una globalizzazione ante-litteram?

da 12 Feb 2025Culture, In primo piano0 commenti

Chi pensa alla globalizzazione come a un fenomeno squisitamente postmoderno forse non considera che il più grande processo di “globalizzazione” si è già verificato nell’antichità ed è tradizionalmente noto come «romanizzazione». Ma che cosa si intende per romanizzazione e perché viene da alcuni definita come globalizzazione ante litteram? 

La romanizzazione è il processo di riduzione a unità politica e omogeneità culturale di un complesso di popoli e stati, conquistati con le armi dai Romani e successivamente associati alle funzioni di governo, fino a cancellare la distinzione tra vincitori e vinti. Tra i maggiori aspetti unificatori troviamo l’efficiente sistema stradale, che, così come i moderni Internet e mass media, garantiva che le informazioni circolassero rapidamente. Si costruivano città tutte uguali, con foro, teatro, terme, circo, si procedeva a favorire coloro che parlavano il latino e il greco, lingue comuni, che possono essere paragonate al moderno inglese. Inoltre, allora come oggi, si assisteva alla scomparsa delle culture “minori” ad opera di quelle dominatrici.

Certo, la romanizzazione, in particolare nelle aree periferiche dell’impero, non era mai un fenomeno unilaterale di assimilazione alla cultura del vincitore, ma operava con scambi reciproci, spesso anche commerciali, tra substrato regionale e cultura romana dominante, configurandosi come un fenomeno di ibridismo culturale.

Però, nel momento in cui si otteneva lo status di cittadino dell’Impero, bisognava cominciare ad osservare tutti gli obblighi e il modo di vivere dei Romani (matrimonio, modo di dividere l’eredità…). Essere cittadini, quindi, non offriva soltanto privilegi, ma implicava anche rinunce e sacrifici. In cambio della parità di diritti, bisognava allontanarsi il più possibile dalle proprie tradizioni e radici. Lo scopo era creare un mondo in cui la popolazione con la stessa lingua e gli stessi valori vivesse nello stesso modo dappertutto, dalla Scozia a Baghdad. Per molto tempo questo fu un modello di successo.

Questo non accade ai giorni nostri: in Italia la Costituzione rivendica la laicità dello Stato e il diritto del singolo di professare liberamente la propria religione, esprimere il proprio pensiero e mantenere le tradizioni del proprio paese d’origine. Purtroppo però la legge non sempre corrisponde alla realtà e spesso i migranti vengono accolti con terribili pregiudizi, profonda ostilità e diffidenza. Questo è dovuto all’innata paura dell’essere umano verso il “diverso”: partendo dal presupposto che la propria cultura sia la migliore e l’unica degna di essere rispettata, non ci si rende conto che l’incontro con popolazioni diverse e lontane può costituire in realtà un enorme arricchimento, poiché permette di evadere da una dimensione prettamente egoriferita, ampliare lo sguardo ad altre e nuove civiltà, mentalità e intelligenze e giungere così al comune progresso. Questo scambio, perché sia fecondo, necessita impegno e rispetto reciproco, sia da parte dei  migranti, che da parte della popolazione italiana. I primi devono mostrarsi pronti a conoscere, così da poterli rispettare, gli usi, i costumi e le leggi dello Stato di cui entrano a far parte, mentre la seconda, a sua volta, deve garantire le condizioni necessarie per cui essi possano integrarsi: accesso all’istruzione e al mondo del lavoro. 

Ritornando al discorso iniziale, chi erano i protagonisti del processo di Romanizzazione? I CIVES OPTIMO IURE e i BARBARI. 

Il concetto di “barbaro” venne introdotto dai Greci, che con questo termine definivano tutti coloro che non parlavano greco: i Persiani, che in un primo momento sconfissero, ma anche i Romani, da cui furono sconfitti. I Romani, poi, smisero di essere chiamati barbari dai Greci poiché, affascinati dalla loro ricca cultura, lasciavano loro più libertà, includendoli nella propria società e non solo come schiavi. La storia dello storico Polibio, che da schiavo divenne prima liberto e poi uomo politico di grande valore, è la perfetta dimostrazione di questo. La nozione di “barbaro” quindi cambiò: il termine indicava chi non era né greco né romano. In particolare, negli anni della Tarda Repubblica, del Principato Augusteo e nei primi anni dell’Impero i barbari venivano definiti PEREGRINI, termine tecnico che stava ad indicare, per l’appunto, chi non godeva del diritto romano. 

IL CIVIS OPTIMO IURE, invece, godeva di una vasta gamma di diritti politici e sociali (votare in assemblee e comizi, presentarsi alle elezioni e accedere alle cariche pubbliche, arruolarsi nella legione e dedicarsi a qualsiasi attività commerciale); nell’ambito della giustizia, il cittadino poteva intraprendere azioni giuridiche davanti a un tribunale romano, essere assistito dal tribuno della plebe e ricorrere in appello contro le decisioni dei giudici. 

Ad oggi, in Italia, diventare cittadini consente una maggiore partecipazione alla vita politica e comunitaria, perché apre la possibilità di essere parte dell’elettorato attivo, cioè di esprimere la propria volontà politica attraverso il voto, e dell’elettorato passivo, cioè di presentare la propria candidatura e accedere alle cariche elettive all’interno di organi rappresentativi statali, regionali o locali. Tra i maggiori vantaggi c’è la libertà di viaggiare, lavorare e vivere all’interno dell’Unione Europea senza bisogno di visti o permessi speciali. Inoltre, garantisce una più ampia possibilità di inserimento nel mondo del lavoro, poiché è presentata come prerequisito necessario alla candidatura ai concorsi pubblici e permette di lavorare in un altro paese dell’Unione Europea senza il bisogno di un permesso di lavoro, ottenendo l’accesso a condizioni di lavoro e di retribuzione paritarie con i cittadini del paese ospitante. La cittadinanza poi, essendo permanente, offre sicurezza legale a lungo termine, al contrario dei permessi di soggiorno, che comportano costante incertezza per via dei tempi di rinnovo: infatti, per legge questi dovrebbero essere disponibili al massimo due mesi dopo la domanda, ma in realtà nella maggior parte dei casi è necessario attendere cinque mesi o più.

Anche in epoca imperiale, poi, si poteva ottenere la cittadinanza anche se non si apparteneva alla popolazione di origine italica, perché il governo sistematicamente nei territori conquistati individuava coloro che meritavano di entrare nella classe dominante e concedeva loro, valutando quanto sarebbero potuti essere utili allo sviluppo e alla prosperità della comunità, la cittadinanza, grandissimo privilegio e segno di appartenenza all’élite multietnica dell’impero. 

Il tema era fortemente sentito e significativo: a tal proposito celebre è il discorso dell’Imperatore Claudio, riportato negli Annali di Tacito, che nel 48 d.C. presentò al Senato un progetto di legge che prevedeva la nomina a senatore degli uomini più importanti e influenti della Gallia. Questa proposta suscitò dissenso tra molti senatori, che si chiedevano dove fossero finiti il sangue, il lignaggio, la stirpe… Claudio allora intervenne con parole cariche di πάϑος (letteralmente “emozione” dal greco antico), ricordando che sangue e stirpe non contavano, poiché tutti loro, nonostante ostentassero l’appartenenza alle più nobili gens romane, in origine erano stati Sabini o Etruschi ed era soltanto grazie a Romolo che in quel momento avevano la possibilità di essere un unico potente popolo. Queste le sue parole:

A quale altra cagione fu da attribuirsi la rovina degli Spartani e degli Ateniesi, se non al fatto che essi, per quanto prevalessero con le armi, consideravano i vinti come stranieri? Romolo, nostro fondatore, fu invece così saggio che ebbe a considerare parecchi popoli in uno stesso giorno prima nemici e subito dopo concittadini.

Quindi, nessuno all’inizio era Romano, ma la forza di Roma stava proprio nella sua capacità di integrare i nemici sconfitti, scegliere i propri uomini, assimilare i cittadini e romanizzare la popolazione.

Avanzando cronologicamente nella storia dell’Impero si smise di convivere con la differenza tra cittadini ed indigeni: dentro l’Impero si era andati molto avanti con le concessioni di cittadinanza, prima individuali, poi ad intere città e regioni, come accadde con la Spagna. La gente parlava sempre più greco o latino e il modo di vivere dei Romani si era fortemente radicato. Perciò l’autorità imperiale, Caracalla (Marco Aurelio Antonino), nel 212 d.C. emanò un editto per cui tutti quelli che vivevano entro i confini dell’Impero erano cittadini romani. D’ora in poi EXTRA ROMANO IMPERIO si era Barbari, INTRA ROMANUM IMPERIUM si era CIVES OPTIMO IURE. 

Era dunque pronta la scena per il confronto tra Romani e Barbari nel modo a cui siamo abituati. Poiché i Romani avevano smesso di espandersi e catturare schiavi, il prezzo di questi ultimi era salito e c’era un gran bisogno di manodopera. La demografia, poi, era particolarmente instabile, anche a causa di frequenti epidemie come il vaiolo. Caserme e campi erano vuoti. Perciò, da Marco Aurelio (il primo che stabilì patti con i capi barbari) in poi le tribù cominciarono ad entrare in un flusso continuo nell’Impero per lavorare, non come invasori, ma come immigrati, profughi, deportati. 

Quando i barbari sono immigrati? L’imperatore sconfigge fuori dai confini dei capi barbari, che, ridotti alla disperazione, cadono in ginocchio di fronte a lui, supplicando di essere perdonati e accolti nell’impero, perché ormai il loro paese è distrutto. Sono dunque immigrati. 

Quando sono profughi? Quando immigrano spontaneamente, poiché costretti a scappare per via di carestie o attacchi di altre tribù nei paesi d’origine. Arrivano al Danubio o al Reno, frontiere dell’Impero, trovano le guarnigioni romane e vengono fatti entrare per lavorare. Sono dunque profughi. 

Quando sono deportati? I latifondisti di una provincia di confine dell’Impero, per esempio la Gallia, protestano di non avere manodopera. Allora il governo organizza una spedizione, sconfigge i barbari e quando questi vengono a chiedere pietà, la concede a patto di ricevere 10.000 lavoratori. Questi sono deportati. 

Domanda fondamentale ma irrisolta: questi immigrati, profughi e deportati, divenivano cittadini? L’Editto di Caracalla rispondeva a questo, ma purtroppo nell’unico papiro che riporta il testo dell’editto, scritto in greco, c’è un buco. Ma di fatto cosa accadeva? I barbari appena arrivati continuavano ad essere considerati barbari. I Romani, però, dopo l’Editto di Caracalla, avevano smantellato il sistema della concessione ufficiale della cittadinanza, non c’era più controllo, quindi il barbaro che arrivava vestito di pelliccia non era cittadino, ma magari il figlio che parlava latino, era stato educato a Roma e soprattutto era arruolato, sì. Si tratta quindi di un’assimilazione tacita. 

Importantissima poi la questione dell’arruolamento: quando i generali facevano presente che le caserme erano vuote, i reparti erano a corto di organico e che c’era il rischio che la guerra andasse male, si faceva un bando di arruolamento e nel momento in cui un barbaro si arruolava diventava automaticamente soldato e cittadino romano.

Questa situazione può essere paragonata a quella attuale: in Italia non c’è bisogno di riempire le caserme, ma sono tanti i lavori umili, legati ad esempio al settore dell’edilizia, dell’agricoltura o dell’assistenza domestica, che i migranti, per integrarsi, accettano di svolgere, pur essendo, magari, istruiti o qualificati per tipologie di lavori più prestigiose. Dunque essi costituiscono senza dubbio una grande risorsa economica, ma non è giusto che vengano considerati soltanto per questo, perché si rischierebbe di rendere più vasto il divario economico-sociale che divide le persone. Dovrebbero avere invece le opportunità di fare carriera e anche di raggiungere posizioni di spicco. Bisogna ricordare che non sono strumenti utili  ad occupare le posizioni più modeste rifiutate da alcuni, ma persone, con l’animo ricco di sogni  e di aspirazioni… Se molti di loro, pur essendo consapevoli di poter annegare e di rischiare la vita, intraprendono lunghi viaggi per mare, ammassati in centinaia su barconi di fortuna, è perché nel paese d’origine, a causa di guerre, carestie e povertà estrema, sono veramente in condizioni disperate e quella di emigrare è la loro unica speranza: meritano quindi buona accoglienza e solidarietà, non pregiudizi o disprezzo.

Sitografia

Alessandro Barbero – Barbari e Cittadini

L’imperatore Claudio così parlò al Senato di Roma – Renato Pilutti

Essere un cittadino romano

https://aulalettere.scuola.zanichelli.it/materie-lettere/latino-greco-lettere/laromanizzazione-dellimpero-una-globalizzazione-ante-litteram-il-punto-di-vistadella-cultura-dominante

Helena Latronico

Helena Latronico

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