Cos’è che ci spinge a tenere il calice alzato sotto i rintocchi dei fuochi d’artificio e di quell’eccitante countdown? Cos’è che ci spinge a riversare così tanto odio verso l’anno che ci lasciamo alle spalle?
“Prevedo un anno ricco di occasioni”, “Finalmente ci liberiamo di questo anno terribile”, “Il prossimo anno non potrà mai essere peggio di questo”, “Il prossimo anno cambierà tutto”. Queste sono alcune espressioni che di solito utilizziamo con tanto fervore e con tanta prosperità. Alle soglie dell’evaporante 2020 ci sentiremo ancora più inclini nel dare fiducia al chiudersi di quest’ennesimo ciclo fatto di 365 giorni.
Il 2020 di fatti è stato un anno che, volenti o nolenti, ha cambiato radicalmente le nostre vite. Un’ondata di difficoltà si è abbattuta sulla coscienza collettiva: c’è chi l’ha affrontata con sicurezza e determinazione, rialzandosi anche più forte di prima; c’è chi, invece, si è lasciato inondare dalla sua ira, scoprendo la tetra natura delle proprie debolezze. Ognuno di noi, tuttavia, freme all’idea di potersi liberare di questo pesante masso che di colpo un giorno ci siamo ritrovati ancorato alla schiena. Con l’avvento del nuovo anno, nuove porte si apriranno, poiché una volta toccato il fondo non si può che risalire. Le difficoltà vissute e gli errori commessi non hanno fatto altro che renderci più coscienti, più forti, più volenterosi di sfruttare l’anno a venire come l’occasione per costruire un futuro più prospero.
Ora però vi chiedo di rilassarvi e di concentravi un attimo, focalizzandovi sul seguente quesito: perché questo perpetuo sperare, questa spinta verso il miglioramento, alla fine, ci lascia in balìa di anni a nostra detta sempre più grigi e difficili? L’eccitamento, la gioia, il mistero che distinguono quella notte magica sembrano sempre dissolversi nei primi mesi dell’anno. Il senso di novità di fronte all’avvento di un nuovo ciclo cosmico – da noi sintetizzato nel cambio di un numeretto – è come se creasse una via di fuga dove collocare i nostri sogni irrealizzati, il dissolversi delle nostre insoddisfazioni; un ripristino che spazzerà via l’intero peso da noi accumulato.
Arriva però un momento in cui quel numeretto, per mano del tempo, non lo vediamo più come una scintillante novità, ma inizia gradualmente a incorniciarsi nel riquadro monotono della nostra quotidianità. Il senso di novità sembra così svanire e con esso lo spazio dove avevamo riposto tutte le nostre speranze. L’intero peso che ci volevamo lasciar cadere alle spalle sembra ripresentarsi, di colpo, sullo stesso tragitto lungo il quale pensavamo di sbarazzarcene. Ed ecco che tutto ricomincia da capo.
Un’altra domanda che vi invito a porvi: perché riversiamo tutta questa rabbia nei confronti dell’anno che ci lasciamo alle spalle? L’ovvia risposta, specialmente in riferimento a questo tortuoso 2020, si trova nelle evidenti difficoltà che abbiamo vissuto durante quell’anno. Un’affermazione del genere presuppone quindi che queste difficoltà vengano isolate esclusivamente all’interno del singolo ciclo annuale, affidando all’anno che sopraggiunge il compito di esorcizzarle. Ma, come abbiamo già visto, l’avvento di un anno nuovo non cambierà di certo il tanto avverso stato delle cose: esso ci darà solamente la possibilità di evadere momentaneamente, di percorrere un nuovo tragitto augurandoci che stavolta ci porti alla destinazione tanto desiderata. Per mantenere viva quest’illusione è necessario perciò riversare ogni colpa del male vissuto verso il tragitto compiuto, il quale ci ha lasciati tanto insoddisfatti, affidandoci ciecamente a quello che segue.
Tutta questa riflessione sembra persuaderci della totale decadenza di una simile festività. In realtà, il suo fine vuole essere il riaggancio alla vera essenza di questa magnifica celebrazione quale è il capodanno. Se ci pensate bene, noi tendiamo a definire il corso dell’anno in base alla situazione politica, alle difficoltà economiche, agli eventi che compongono solo la coltre più apparente della nostra esperienza collettiva e personale. L’anno è diventato un archivio nel quale depositiamo le nostre offuscanti memorie; e sono queste offuscanti memorie a ricondurci sempre sulla stessa strada, al forte legame con la materia e con tutto ciò che è solamente apparente.
Il ciclo annuale, tuttavia, può essere molto più di questo. La fine dell’anno stabilisce il ridisporsi dei pianeti, il ripristino dell’ordine cosmico, l’ammaliante ripetersi del ciclo delle stagioni. L’essere umano, però, con il suo disorganizzato bisogno di raggiungere obiettivi materiali, ha scaraventato in un profondissimo inconscio il suo legame col cosmo. A nostra piena insaputa continuiamo comunque a vivere questa onnisciente annessione al ciclo della vita. Basta solo aprire gli occhi: non vi è mai capitato di avvertire un cambiamento dello stato emotivo in base al clima stagionale? E non vi sembra che ogni anno, senza uno scopo apparente, viviamo un continuo alternarsi di gioie e di dolori, quasi come un ciclo infinito di morte e rinascita?
Il nostro utilizzo razionale e materialistico della mente ci ha condotti a visualizzare la vita come una linea retta, al cui vertice è presente un traguardo, che per noi è indispensabile raggiungere. Ci siamo convinti che la vita ha lo scopo di dover raggiungere un obiettivo fisso e immutabile. Eppure è la vita stessa che ininterrottamente tenta di rivelarci l’inesistenza di un simile traguardo. Ecco perché, al termine di ogni anno, ci auguriamo di poter raggiungere il nostro obiettivo… e ogni anno falliamo in questo vano intento.
È necessario abbandonare questa nostra sete di obiettivi e di mete prestabilite. Dobbiamo lasciarci andare alla vita, alla commovente mancanza di senso che la circonda, al suo inspiegabile ciclo di morte e rinascita. Perché sfruttare la sera del 31 Dicembre come un vano mezzo per sotterrare freneticamente il nostro malcontento? Proviamo invece a tenerci per mano, a guardarci negli occhi e vivere lo spettacolo dell’inestinguibile ripetersi della “primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera”.
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