Forse tu sei bravo a gingillare con i topi, a seguire la guida di una freccia, a stare dietro a una colonna d’Ercole mentre scrivi. Io lo detesto. Per me quel medesimo stilo fa uscire l’inchiostro che uso per tingermi le mani e tessere parole con la mia lunga, complessa e stretta calligrafia, che pare più un quadro di rose, non una prosa. Resto fedele alla mia tela, come un marinaio rimarrà sempre fedele al mare, nonostante sia vero che l’abbandona, quando sovviene il bianco nei capelli.
Sono figlia dell’amore umano e condannato, non frutto di un codice, indecifrabile, forse paragonabile allo scempio turco, che opprime tutto come fecero gli stessi con gli armeni. Tu non capirai di cosa parlo, forse non ora. Io sono un gabbiano, osservami, o passante. Ammirami, sono amaena, sinuosa, leggiadra. Rimirami, con i tuoi stessi occhi sempre fissi sul terreno. Sto volando, viaggiando, danzando.
Ma io sono tutto questo solo nel volo, poi mi appoggio alla tua realtà, poso sul tuo piano. Tu mi guardi, mi beffeggi per il mio modo osceno di zampettare. Ridi, sono ridicola, patetica, arlecchinesca. Eppure prima io ero superiore a te, io, che perpetua nel tempo, sono stata superna. Tu infimo, che se scrivi ribadisci luoghi comuni, che ti nascondi dietro alle frasi fatte. Sai chi sono io? Rammenti cosa sono stata? Tu che dall’altissimo del tuo mondo alieno mi guardi come se fossi un oggetto da buttare. Mi vedi come una folle creatura, inutile, come chi mi somiglia, perché lontano dal tuo universo.
Intendi chi sei tu? Ti nascondi dietro a quella faccia diversa da te, truccata, esagerata. Ho-fatto-questo. Ho-fatto-quello. Sono-questo. Sono-quello. Io odio definirmi. Io sono tutto e sono nulla, vuota e piena, ricca e povera. Odi, tu, essere schiavo di tutto e nulla. Sai tu in cosa deponi la tua fiducia? Dimmi, chi è quel dio profano che tu tanto veneri e ammiri, che ha fatto di così importante da venerarlo? Ci-ha-svoltato-l’esistenza. L’ha davvero fatto in meglio? Dimmi, mancipio, ti ha davvero migliorato? Tu che non usi più la mente per il calcolo algebrico, tu che non usi più la tela per dipingere un quadro, tu che non sai più scrivere senza una mano che ti corregga. Dov’è la tua umanità? Dov’è la tua anima? Lo sai tu?
Per me tu sei un automa. Tu che ti ritieni superiore per questa capacità di adattarti, d’imparare. Appelli me come “boomer”, quale forestierismo rivoltante… Io sarò antiquata, sarò arcaica, ma mai una portatrice di modi di pensare e agire superati e perfino nocivi (cfr. Treccani). Tu usi termini che nemmeno conosci, di cui nemmeno capisci il significato e appunti il tuo dito scarno contro di me. Parlami, giustificati. Provaci, che hai da dire in tua difesa? Ti ricordi chi sono? Rimembri cosa sono?
Mi sputi contro quel tuo insidioso filosofare su chi io sarò, su cosa sarai tu, porti verso il celeste la tua idea di principio, sei certo che sarò come te. Mai. Passeranno guerre sul mio corpo, potranno cadere fiocchi di neve neri e marcire tutti i tulipani; ma mai vedrai me uguale a te. Né tu sarai anche solo paragonabile a me. Non giungerai a toccare l’Empireo, né sarai in grado di cogliere le sfumature di questa cupola celeste, non per ignoranza, bensì per ignavia. Non alzerai mai il capo da terra e come un cavallo da traino sarai convinto che così sia giusto. Oppure dimmi, apostolo del tuo dio, sei sicuro che sia corretto? Se esci fuori, guardi per terra o ammiri il cielo?
Non sai nemmeno le parole che usi, nemmeno sapresti esprimerti in modo elegante, se non diplomatico o accademico, ti ritieni sapiente perché non hai preso meno di otto, ma quanto ti ricordi realmente? Quanto ne sai? Il tuo studio mnemonico, non logico, you-learn-by-heart. Di cosa vuoi parlarmi? Sei superficiale come una busta di plastica che galleggia nel mare. Ma ancora non capisci? Forse hai inteso. Lo spero.
Quel tuo dio è un parassita, come Samsa risucchia le mie energie, dovrà perire perché io possa vivere, perché io possa esprimere ciò che provo e penso. E quando sarà crepato, io festeggerò, inneggerò alla gioia e alla vittoria, mentre tutto ciò su cui ti eri fondato è caduto sotto il peso di sé stesso. E quando realizzerai che il tuo mondo era una falsissima imitazione del mio benessere, piangerai e mi cercherai nel cielo; ma non mi troverai, io sarò migrata al Sud, a bagnarmi le zampe nelle acque calde del Mediterraneo.
Il mio amore sarà diverso dal tuo: sarà forse empireo, poco razionale, sarà eccentrico. Non so se riuscirai mai ad ammetterlo, ma so che ne sei consapevole. Anche tu spero possa amare così. Spero tu possa essere anche artista nel tuo ruolo da borghese. Forse sei in conflitto con te stesso. Forse non sei nero, manca solo un po’ di luce che rilevi la tua vera tinta. Magari sei un blu di Prussia o un vinaccia. Magari sei solo puniceo, ma troppo scuro perché lo si veda. Siamo tutti dei colori. Lo vedi pure tu?
Forse nemmeno lo vedi. Sei tristemente fedele solo al tuo dio, quel piatto e insignificante dio, e non vedi altro. Non c’è ragione per te di vedere altro. No, non hai nemmeno un motivo per alzare la testa e vedermi volare. Non hai bisogno di sentire questo profumo di limoni, di lasciare la tua casa per vedere altro. Ecco perché io sarò solo una boomer e tu per me sarai solo un ignorante.
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